Maria Teresa Sica

Un anno di Covid

È trascorso un anno, tra distanza e mascherine, lockdown e DCPM, canzoni dai balconi e giochi in casa… e attività sospese, escluse quelle “indispensabili”, scuole altalenanti, escursioni tra le concessioni e i divieti relativi ai colori delle diverse zone, ristori e riduzioni, persone barricate in casa e persone che invece “il virus non esiste”… e malati, guariti, morti, tanti…troppi morti.

Morti a causa del covid, ma non solo, ci sono state anche morti determinate da altre cause, seppure collegate all’emergenza covid. Sono quelle di alcuni lavoratori presi dalla disperazione, e quelle di alcune persone perse nella disperazione.

Sì, perché ci si trova ad essere “presi”, ma anche a “perdersi”, e c’è chi non ha la forza di reagire, chi non riesce a vedere altra soluzione.

Allora bisogna fermarsi, prendere atto e ragionare.

Un anno di divieti, alternati a concessioni talvolta poco coerenti, a cosa ha portato? Basta guardarsi intorno per rendersene conto:

statali presi d’assalto perché loro hanno “lo stipendio certo”;

partite IVA in crisi profonda;

bambini e ragazzi persi nel baratro dell’asocialità: niente giochi, niente amori, niente amici; i contatti molti, i più responsabili, li mantengono solo grazie alla tecnologia, poiché esistono anche molti “meno responsabili” che si incontrano, si riuniscono, a dispetto delle norme da seguire;

lavoratori autonomi disperati che, seppure sostenuti da ristori proporzionati rispetto alla loro ultima dichiarazione fiscale, si trovano a dover affrontare spese diverse a fronte di mancate entrate, o hanno affrontato spese, fiduciosi in una ripresa contingentata che poi non si è verificata;

e i dipendenti di questi lavoratori, quelli a cui – fatta salva la buona volontà dei rispettivi datori di lavoro – non spettava alcun ristoro, quelli che si sono trovati più in difficoltà insieme ai tanti, tantissimi lavoratori in nero che, purtroppo, inutile negarlo, esistono, e hanno famiglie a carico da mantenere.

Ho dimenticato qualcuno? Sicuramente, ma già tutto questo rende l’idea del quadro “tragico” in cui ci troviamo ancora adesso, dopo un anno.

 

A maggio eravamo davvero a buon punto, forse prolungare ancora il lockdown in quel momento sarebbe stata la scelta più opportuna, ma i problemi dell’economia hanno preso il sopravvento e, inevitabilmente, ci hanno condotti dove ora siamo.

Perché è inutile negarlo: le persone, molte persone, non sono per niente attente e rispettose, anzi, prevale l’egoismo, e dopo le logiche conseguenze le pagano tutti.

Allora probabilmente il modo per affrontare il problema deve essere un altro.

A ben guardare i divieti, almeno in Italia, non hanno mai portato a nulla, c’è sempre quello che riesce a trovare l’espediente per evitare di rispettarli, non curante delle conseguenze che possono ricadere sulla comunità, dunque i divieti drastici non sono la soluzione, a meno che ci sia chi controlla seriamente e seriamente intervenga nei confronti del reo. Ma qui questo non succede, anzi spesso sono proprio le persone migliori quelle che si trovano a “pagare” quando, per caso o per disperazione, non osservano una disposizione.

Certo, perché bisogna fare anche i conti con la disperazione, soprattutto quella delle persone per bene.

 

Quale potrebbe essere, allora, una soluzione?

Considerato che è un anno che chiusure e divieti radicali altalenanti non hanno portato a nulla di buono, a questo punto si potrebbe provare con l’opposto: aprire tutto. 

Sì, aprire tutto, ma con alcune dovute precauzioni, perché il virus esiste e occorre cautela.

Allora concessioni, precauzioni, sanzioni mirate e multe:

 

mascherina fissa in gruppo sì, anche doppia (meglio abbondare!!) altrimenti sanzione e multa, anche consistente;

distanza di sicurezza sì, possibilità di creare piccoli gruppi in spazi aperti o chiusi sì, ma facendo attenzione a mantenere la distanza di sicurezza, altrimenti sanzione e multa;

ingressi contingentati nei negozi, nei locali, nei luoghi pubblici sì, poi, se viene superato il numero di ingressi consentiti, chiusura, solo per chi sbaglia, chiusura accompagnata da una multa;

scuola in presenza sì, ma con un rapporto spazio/numero di presenti che permetta di tenere la distanza necessaria, che chiaramente non può essere “un metro dalla rima buccale”, dunque diminuzione del numero di allievi per classe, altrimenti interruzione dei servizi e multa.

Insomma aprire tutto e chi sbaglia, solo chi sbaglia, paga.

Ovvio che occorre il contributo dello Stato, perché ci sarebbero situazioni in cui bisognerebbe aumentare il personale e perché è lo Stato che dovrebbe occuparsi dei necessari controlli. Forse servirebbe una sorta di “poliziotto di quartiere” così la sorveglianza potrebbe essere realizzata seriamente; si potrebbe ricorrere a tutte le forze dell’ordine esistenti, anche ai militari, e disporre un planning di ripartizione e attribuzione territoriale a due o più unità. 

Insomma una ripresa della vita normale a tutti gli effetti, ma con la comune consapevolezza dell’esistenza di un virus del quale si deve bloccare la diffusione, cosa che richiede la collaborazione comune e, purtroppo – viste le inclinazioni del genere umano – controlli a tappeto atti a verificare l’esistenza di senso civico e a sanzionarne l’assenza.

Distanza e mascherine sono fondamentali, mettere in atto comportamenti che evitano il contagio è un dovere di tutti, e non richiede neanche tanto sforzo, ci vuole solo buona volontà e capacità nel sapersi accontentare senza tendere ad avere il locale pieno: meglio guadagnare poco e sapersi accontentare rimanendo però in attività.

E allora basta divieti, ma che ci sia senso di responsabilità. Ne beneficerebbero tutti, potrebbe essere una ripartenza, magari lenta, ma allora sarebbe una lenta ripresa verso la vita normale. Per tutti.

Mts©

 

 

 

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